Condominio

L’amministratore fa causa sull’indennità d’esproprio ricevuta per il bene comune

di Valeria Sibilio


In caso di esproprio di un bene di proprietà condominiale, occorre tenere presenti le competenze dell'amministratore del condominio nelle procedure relative all'esproprio stesso o nelle azioni che possono essere promosse per contestarlo. L'ordinanza della Cassazione 5900 del 2018 ha trattato un caso originato dalla domanda introdotta da un condominio, a mezzo del suo amministratore, nei confronti del relativo Comune, intesa a conseguire le indennità dovute in base alle disposizioni di legge, in relazione ad un esproprio subìto di un'area di propria appartenenza, ai fini della realizzazione di una rotatoria stradale. Accogliendo l'eccezione del Comune, la Corte d’appello aveva rigettato la domanda sostenendo che l'amministratore non disponeva di una autonoma legittimazione processuale, in quanto, trattandosi di una vertenza che fuoriusciva dall'ordinaria gestione dei beni comuni, si imponeva una delibera adottata all'unanimità da tutti i condòmini. Inoltre, trasferendosi il diritto reale dal bene all'indennità, difettava nella specie l'oggetto della proprietà immobiliare comune, sostituito dalla comunione sull'indennità pecuniaria.
Ricorrendo in Cassazione, il condominio censurava la decisione della Corte in quanto, per il ricorrente, l'art. 1130, comma 1, n. 4, cod. civ. legittima l'amministratore del condominio al compimento degli atti conservativi inerenti le parti comuni e quindi ad agire a difesa di esse anche in via risarcitoria. Inoltre, il condominio si doleva della decisione della Corte che aveva ravvisato la nullità della deliberazione condominiale 5.12.2008, dichiarata sul presupposto che l'azione proposta sarebbe estranea alle attribuzioni dell'assemblea condominiale. Il Comune controricorrente faceva valere l'eccezione secondo cui il ricorso del condominio a questa Corte risultava inammissibile, in quanto, ai fini del suo promovimento, non basta una delibera condominiale adottata a maggioranza, ma occorre il consenso unanime di tutti i condòmini.
La Cassazione ha affermato che la questione in esame si colloca al centro di un reticolo normativo che, nell'assetto impresso dal Codice civile alla distribuzione dei poteri interni al condominio, conduce a individuare nell'assemblea dei condòmini l'organo che, in quanto provvisto di una competenza decisoria a carattere generale nella gestione dei beni facenti parte del patrimonio comune, gode pure di una corrispondente potestà deliberativa in ordine all'assunzione delle liti processuali che li riguardino.
Sia l'art. 1131, comma 1, cod. civ., (l'amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi), che l'art. 1136, comma 4, cod. civ., (le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, le deliberazioni che concernono la ricostruzione dell'edificio riparazioni straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui agli articoli 1117-quater, 1120, secondo comma, 1122-ter nonché 1135, terzo comma, devono essere sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo comma del presente articolo) rimarcano il ruolo primario dell'organo assembleare quale finale depositarlo del potere deliberativo che ad esso compete, ben oltre lo steccato apparentemente limitativo dell'art. 1135 cod. civ., in materia di gestione dei beni comuni.
La collegialità che è insita nell'adozione del metodo assembleare e che presuppone che tutti i condòmini siano posti in condizione di esprimere, mediante il voto, il loro giudizio in ordine agli affari comuni, non può restare prigioniera del volere del singolo. Questo per evitare che la dialettica assembleare si risolva in danno di un'efficiente gestione dei beni comuni. La regolazione dell'attività deliberativa dell'assemblea in base al principio maggioritario diviene, perciò, non solo una scelta ordinaria, ma anche obbligata, in quanto la volontà contraria di un solo partecipante sarebbe sufficiente ad impedire ogni decisione.
Se fosse credibile che in relazione ad una vicenda, come quella in giudizio, l'amministratore del condominio, onde opporsi alla stima delle indennità dovute, necessitasse del consenso unanime dei singoli condòmini e non potesse agire in base ad una deliberazione maggioritaria, basterebbe il dissenso anche di un solo condòmino per rendere inoppugnabile la stima e ad obbligare il condominio ad accettare una indennità in ipotesi anche irrisoria.
Per gli ermellini, il decreto di espropriazione per pubblica utilità incide sull'oggetto ma non sulla natura del diritto espropriato e, pertanto, il diritto reale degli espropriati si trasferisce sulla somma di cui è previsto il deposito prima che venga emesso il decreto. Ove si versi nell'ipotesi di comproprietà indivisa del bene, la comunione permane sull'indennità fino al momento in cui questa sarà divenuta definitiva e ne sarà disposto lo svincolo dall'autorità giudiziaria, sulla base dell'accordo delle parti o in ragione dei diritti degli espropriati. La comunione, che prima esisteva riguardo al bene, si converte nella comunione sull'indennità che non cessa per questo di essere bene comune a tutti i suoi partecipanti. Se l'indennità è comune, ogni questione afferente alla sua gestione non esula dalla competenza che in linea generale il legislatore del condominio ha inteso attribuire alla comunità dei condòmini riuniti in assemblea riguardo la loro gestione. Questo, giustifica sia la legittimità di una deliberazione maggioritaria, che decida di intraprendere la lite relativa alla sua determinazione, che quella dell'amministratore, organo di rappresentanza della comunità condominiale.
La Cassazione ha, perciò, accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d'Appello che, in altra composizione, provvederà pure liquidazione delle spese del giudizio.

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