Condominio

Legittimazione processuale dell’amministratore e «atti conservativi»

di Giuseppe Marando

La capacità dell'amministratore di stare in giudizio per la difesa degli interessi condominiali è subordinata dalla legge, in talune situazioni, ad una delibera assembleare di autorizzazione preliminare o di successiva ratifica (entrambe da approvare con la maggioranza di 500 millesimi). L'argomento è molto vasto ed innumerevoli i problemi che ne scaturiscono, di cui ne tocchiamo solo alcuni.
La legittimazione attiva (facoltà di promuovere azioni legali in nome del condominio) è attribuita direttamente dalla legge (quindi svincolata da ogni provvedimento dell'assemblea) solo quando risulta attinente alle attribuzioni dell'amministratore indicate dall'art. 1130 cod. civ. (a cui rinvia il successivo art. 1131 che vi include anche i maggiori poteri conferiti dal regolamento o dall'assemblea). Fra le materie più significative che comportano l'investitura per legge, sottoposte con maggiore frequenza all'attenzione dei giudici, ricordiamo gli obblighi di compiere gli atti gli atti conservativi delle parti comuni e di far osservare il regolamento.
Negli “atti conservativi” rientrano, per definizione della giurisprudenza, oltre alle misure cautelari ed urgenti (denuncia di nuova opera o danno temuto), gli atti materiali (riparazioni di muri portanti, di tetti e lastrici) e giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi) necessari per la salvaguardia dell'integrità dell'immobile; ed anche, con interpretazione estensiva, gli atti che, pur interessando parti individuali, si rendano necessari per intervenire sulle parti comuni (Cassazione n. 1990/2016). Rimangono esclusi quelli che incidono sulla condizione giuridica dei beni (per tutte: Cassazione n. 4338/2013, Cassazione n. 16230/2011).
Quanto alla “osservanza del regolamento”, che l'amministratore deve curare, vi sono tenuti sia i condòmini (ed equiparati: usufruttuario, usuario abitatore), sia il conduttore (Cassazione n. 4920/2006); e l'amministratore può agire e resistere autonomamente in giudizio anche per la violazione di clausole che vietano lo svolgimento nella propria unità immobiliare di alcune attività (Cassazione n. 22582/1916, n. 21841/2010, n. 16240/2003; T. Milano n. 11944/2015) o le modifiche che ne mutano la destinazione (Cassazione n. 17493/2014) o determinati usi della unità stessa (Cassazione n. 8883/2005).
Nessun accenno fa la legge alle “domande collaterali”. Si tratta principalmente delle “domande risarcitorie”, che i giudici, a parte qualche sporadica pronuncia sulla necessità di una connessione (nella specie, con la conservazione dei diritti sulle parti comuni: Cassazione n. 10474/1998), ritengono validamente supportate dalla stessa legittimazione inerente alla domanda principale poiché questa riguarda tutte le azioni volte a realizzare la tutela dei diritti sulle parti comuni dell'edificio, ivi compresa la richiesta dei danni subiti (Cassazione n. 7327/2013, n. 16230/2011, n. 23065/2009). Anche per la violazione del regolamento, l'amministratore può avanzare, senza bisogno di delibera autorizzativa, una richiesta di risarcimento al fine di garantire l'osservanza dello stesso (Cassazione n. 16240/2003: nella specie, la clausola violata poneva il divieto di determinati usi delle proprietà esclusive). Emerge, pertanto, il principio di carattere generale che per ogni domanda connessa o accessoria (in definitiva, anch'esse finalizzate, in vario modo, alla tutela dei beni comuni ed al rispetto del regolamento) è valida la legittimazione processuale di cui è investito per legge l'amministratore in ordine alla domanda principale.
La regola sarà applicabile, ed a maggior ragione, a quelle domande di carattere sanzionatorio, che vanno oltre l'accessorietà perchè non possono formare oggetto di richiesta autonoma ma sono consequenziali all'accoglimento di una domanda di condanna, dalla quale risultano inscindibili. Un esempio tipico è dato dall'art. 614-bis c.p.c. (mutuato dal modello francese delle “astreintes”; in argomento v. Tribunale di Varese, ord., 16/2/2011) che consente al giudice, quando pronuncia condanna ad un obbligo di fare infungibile o di non fare, di imporre il pagamento di una somma di denaro per le violazioni successive o per i giorni di ritardo: si pensi, nel caso nostro, alla condanna di rimessione in pristino di una parte comune (atti conservativi) od all'ordine di desistere dalla violazione del regolamento (ed in entrambi i casi può aggiungersi, per quanto detto sopra, il risarcimento dei danni).
Più controverso il tema generale della legittimazione passiva, prevista con una formula molto ampia (e non per materie specifiche) che viene interpretata dai giudici in modi differenti. Il 2° comma dell'art. 1131 stabilisce che l'amministratore può essere convenuto in giudizio “per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio” (in pratica tutte quelle che attengono agli interessi ricollegati alle parti comuni). Il 3° comma, infine, obbliga l'amministratore ad informare senza indugio l'assemblea quando la citazione ricevuta (od il provvedimento) esorbiti dalle sue attribuzioni. La tesi maggioritaria negava ogni limitazione, ritenendo che qualsiasi azione coinvolgente le “parti comuni” non abbisognasse di una delibera autorizzativa (a resistere ed anche ad impugnare la sentenza sfavorevole), con il solo obbligo dell'amministratore, di mera rilevanza interna, di darne senza indugio notizia all'assemblea. La corrente minoritaria, invece, riteneva applicabili gli stessi limiti della legittimazione attiva (art. 1130), attribuendo al disposto dell'art. 1131/2° il solo scopo di tutelare i terzi mediante l'individuazione di un soggetto unico per le notifiche.
Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con una soluzione salomonica: restano fermi anche per la legittimazione passiva i parametri previsti dall'art. 1130 per quella attiva, oltre i quali è necessaria una delibera dell'assemblea; tuttavia, ai fini di una tutela urgente dell'interesse comune, l'amministratore può costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole in modo autonomo, ma deve in tale ipotesi ottenere la necessaria ratifica da parte dell'assemblea stessa (Cassazione n. 18331/2010).
Il percorso indicato dalle Sezioni Unite è stato seguito da varie sentenze; ma nel contempo ha ripreso vigore il vecchio indirizzo della legittimazione passiva autonoma e diffusa per ogni tipo di azione (anche reale o possessoria: Cassazione n. 9206/2005) che abbia ad oggetto parti comuni dello stabile (da ultimo: Cassazione n. 133/2017 e n. 8998/2015; per le azioni risarcitorie: Tribunale di Roma 2/1/2015). In tale incertezza l'amministratore prudente si premurerà, ogni volta che sia possibile, di avvisare preventivamente l'assemblea non appena ricevuta una citazione (od altro provvedimento) per farsi rilasciare l'autorizzazione, in difetto della quale potrebbe risultare necessaria una ratifica successiva. Vanno fatte, comunque, due considerazioni: a) se la causa è soggetta alla mediazione obbligatoria l'assemblea ne verrà comunque a conoscenza, dovendo autorizzare la partecipazione dell'amministratore al procedimento di mediazione, e potrà prendere le decisioni più opportune; b) ove manchi la necessaria delibera condominiale il giudice assegnerà un termine (art. 1182 cod. proc. civ.) per il deposito dell'atto (Cassazione n. 18331/2010 e n. 4733/2011).

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