Condominio

La limitazione del possesso di una parte comune è una molestia

di Edoardo Valentino

Con la sentenza numero 16369 del 6 maggio 2015 la Seconda Sezione della Corte di Cassazione fornisce alcuni importanti criteri interpretativi delle norme in materia di gestione della cosa comune.
La controversia vedeva contrapposte due parti le quali erano comproprietarie di uno spazio comune adibito ad area di passaggio e di parcheggio.
Una parte lamentava che la controparte avesse effettuato dei lavori edili – in particolare la costruzione di un muretto e una piattaforma di cemento – che impedivano l'accesso all'area parcheggi o, comunque, lo rendevano più difficoltoso.
In particolare affermavano i ricorrenti come i vicini avessero effettuato tali lavori al solo scopo di “impedire la sosta, il transito e la manovra di autoveicoli” e muovevano quindi azione di reintegrazione nel possesso della cosa comune (articolo 1168 del Codice Civile) e di cessazione della turbativa da parte del vicino (articolo 1170 del Codice Civile).
Si difendeva la parte convenuta negando gli addebiti e sostenendo la legittimità delle opere edilizie realizzate.
Il Tribunale di Viterbo rigettava integralmente le domande degli attori. E anche la Corte di Appello di Roma – investita della questione – provvedeva a rigettare le richieste della parte attrice e la condannava al pagamento delle spese giudiziali.
I ricorrenti, nonostante le sentenze, di rigetto depositavano ricorso presso la Corte di Cassazione chiedendo il riesame della sentenza pronunciata in grado di appello. Il ricorso era articolato in tre motivi: anzitutto i ricorrenti chiedevano il riesame della sentenza di secondo grado nella parte in cui non considerava l'attività svolta dagli stessi sul terreno (luogo di ritrovo, parcheggio e gioco dei bambini) come esercizio del possesso.
Con il secondo motivo, invece, i ricorrenti contestavano che la Corte di Appello di Roma avesse respinto la domanda di reintegrazione nel possesso in quanto il bene era ancora utilizzabile per gli scopi preposti anche se con maggiore fatica dovuta alle opere edilizie costruite dai vicini.
Il terzo motivo, poi, riguardava le spese del giudizio di Appello che secondo i ricorrenti avrebbero dovuto essere compensate tra le parti e non pagate dagli stessi in via esclusiva.
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento forniva una cristallina interpretazione delle norme del Codice Civile sull'uso della cosa comune e sulla tutela dalle molestie dei compossessori.
I giudici della Suprema Corte – che dichiaravano preliminarmente l'intenzione di analizzare i tre motivi di ricorso congiuntamente – accoglievano le ragioni dei ricorrenti.
Secondo la Cassazione infatti qualsiasi uso della cosa comune che comporti un esercizio di un potere corrispondente ad un diritto reale sarebbe equivalente ad una manifestazione di possesso della cosa comune.
In particolare, quindi, non può esistere una differenza nei diritti tra compossessori basata sulla differente utilizzazione del bene o sul tempo di occupazione dell'area comune.
Secondo la Cassazione, quindi, è sufficiente esercitare nei modi consentiti dalla legge qualsiasi forma di possesso per avere diritto alla piena tutela giudiziaria.
Inoltre, sempre secondo i giudici, qualsiasi forma di limitazione o modificazione delle modalità di esercizio del possesso altrui è da considerare come una molestia.
Non è quindi sostenibile la tesi promossa dalla Corte d'Appello di Roma in ragione della quale non sussisterebbe alcuna turbativa nella vicenda sopra descritta dato che – seppure con maggiore difficoltà – il bene comune fosse comunque utilizzabile.
Qualsiasi atto che sia idoneo a cagionare una molestia, attuale o potenziale, quindi, legittima colui che soffre l'offesa ad agire per la tutela dei propri diritti.
Dal punto di vista formale, poi, la Corte sostiene la possibilità anche per il compossessore oggetto di molestia nei propri diritti di agire con le sopra citate azione di reintegrazione (a tutela dello spossessamento violento o clandestino) e di manutenzione (a difesa dalle molestie nel possesso) sia verso i terzi che verso il compossessore.
In conclusione, quindi, la Cassazione accoglieva il ricorso degli attori e rimandava la questione alla Corte d'Appello.

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