Gestione Affitti

La cedolare sui negozi punta a 770mila locali sfitti

di Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste

Sono oltre 770mila i negozi di proprietà di privati che non risultano affittati. In pratica, secondo le ultime statistiche ufficiali, uno su due è sfitto, privo di utenze, dato in prestito gratuito o usato come garage o magazzino. Ed è questo il bacino cui si rivolge la proposta del Governo di introdurre dal 2019 una cedolare secca sui redditi da locazione degli immobili commerciali.

Tra calo dei canoni e peso del prelievo ordinario, oggi in molti quartieri delle città italiane l’affitto di un negozio rende meno rispetto a quello di una casa, come emerge dalle elaborazioni del Sole 24 Ore del lunedì su dati Nomisma. A Milano, ad esempio, l’affitto di un trilocale-tipo in zona semicentrale – una volta versate cedolare, Imu e Tasi – lascia al proprietario 6.603 euro annui. Che per un negozio di caratteristiche similari con la tassazione ordinaria scendono a 5.555 euro: meno di metà del canone lordo (con ancora da pagare spese condominiali e di manutenzione). Applicando la sostitutiva al 21%, per lo stesso locale la cifra salirebbe a 7.905 euro. Un incremento di marginalità che – per i sostenitori della cedolare – favorirà le nuove locazioni e rilancerà l’investimento nel commerciale.

L’idea di una flat tax per il non residenziale circola da anni ed era già nelle intenzioni del centrosinistra e del centrodestra. Soprattutto per combattere l’abbandono di intere vie colpite dalla crisi degli esercizi di vicinato, più che per favorire l’emersione degli affitti in nero (visto che l’inquilino – in questo caso – può dedurre i canoni). Nelle scorse settimane è arrivato l’impegno della Lega a inserire la tassa piatta nella legge di Bilancio e venerdì scorso il sottosegretario al Mef, Massimo Bitonci, ha precisato che l’obiettivo è applicarla solo ai nuovi contratti, così da azzerare il costo per l’Erario, altrimenti stimato a 900 milioni.

Per il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, è «una misura che è insieme di equità, per la crescita e contro il degrado e l’insicurezza, che spesso vanno di pari passo con la presenza di locali vuoti o abbandonati». Il nodo cruciale, però, sarà il perimetro della tassa piatta. Le ultime ipotesi includono anche le pertinenze dei negozi (categoria catastale C/1). Aspetto importante, sottolinea Spaziani Testa, «perché in genere il canone è unitario ed è complesso scorporarlo». Esclusi, per ora, i 201mila uffici non locati e posseduti da persone fisiche e i 570mila fabbricati produttivi (di cui però 420mila rurali).

Tra il 2015 e il 2017 il numero di nuovi contratti non abitativi è rimasto stabile, poco sotto 370mila, e il successo della cedolare si misurerà sui futuri incrementi. Anche se ci sono zone difficili da rivitalizzare, come spiega Luca Dondi, Ad di Nomisma: «È impensabile che ci possa essere una domanda di locazione per tutti gli immobili commerciali oggi in offerta. C’è stato un cambiamento strutturale del mercato e una parte delle unità immobiliari dovrà essere convertita ad altre funzioni».

Al di fuori di quelle che Dondi definisce le prime location, le aree più richieste per affaccio e transito, bisognerà vedere quali immobili sfrutteranno il risparmio d’imposta per tornare sul mercato. Oltretutto, il contratto commerciale ha vincoli maggiori di quelli abitativi, a partire dalla durata (6+6) e dall’indennità di avviamento. Almeno nei centri maggiori, comunque, il margine è interessante. Ad esempio, nel semicentro di Bari l’affitto del negozio-tipo oggi rende circa mille euro in meno all’anno rispetto alla casa. Con la cedolare, però, la redditività recupera quasi 1.800 euro. Come a Firenze, dove la flat tax non pareggia il rendimento del residenziale, ma regala risorse preziose: utili, si spera, per finanziare la ristrutturazione dei locali o limare il canone fino a incontrare il portafoglio dell’inquilino.

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