Gestione Affitti

Affitto non residenziale, nullo il patto di aggiornamento che vada oltre l’indice Istat

di Selene Pascasi

In tema di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, è nullo qualsiasi accordo che preveda un vero e proprio aumento del canone che non sia un mero aggiornamento agli indici Istat, salvo che non ne derivi un nuovo contratto. Diversamente, si consentirebbe al locatore di fruire di un mensile più alto rispetto a quello legislativamente sancito, senza che il conduttore possa – neanche nel corso del rapporto, e non solo in sede di conclusione del contratto – rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti. A marcarlo, è la terza sezione della Corte di Cassazione con sentenza n. 6124 depositata lo scorso 14 marzo (relatore Emilio Iannello) . Protagonisti, l'inquilino di un immobile adibito a panificio, e la parrocchia che glielo aveva concesso in locazione. Concordato un canone di circa 150 euro per il primo seennio, rinnovato tre volte per pari periodo, la parrocchia, prima della scadenza definitiva del negozio, invia al conduttore formale disdetta. Alla stessa, però – comunque tempestiva perché notificata prima dell'anno precedente la chiusura ultima del rapporto – segue una scrittura privata con cui si determina un maggior canone di 450 euro che l'uomo che smette di versare dopo diversi mesi. Di qui, la richiesta della proprietaria, accolta dal Tribunale, con pronuncia confermata in appello, di dichiarare il contratto risolto per inadempimento. Il panettiere chiede “giustizia” alla Cassazione: errava la Corte d'appello a ritenere l'aumento – giacché pattuito dopo la stipula – «ancorato a predeterminati elementi incidenti sull'equilibrio economico del sinallagma contrattuale». Ricorso respinto, nonostante la fondatezza del primo motivo. Sono altre, difatti, le ragioni su cui si muovono gli ermellini. È noto – rilevano richiamando Cassazione n. 20384/2016 – come in tema di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione intervenuta in corso di rapporto avente ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 392/78, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla (art. 79, comma 1, della stessa legge) se finalizzata ad «attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non solo in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti». Del resto, ricordano, se è legittimo determinare convenzionalmente il canone «in maniera differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto», sarà poi il giudice a dover verificare se la previsione iniziale di una “scaletta” del canone sia, o meno, diretta ad eludere la normativa. Egli, in sintesi, dovrà accertare se si tratti realmente di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell'immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, o di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto. Così, l'accordo tra inquilino e locatore con cui si convenga l'aumento del mensile non potrà dirsi illegale se estraneo a finalità elusive della normativa sull'equo canone. Di contro, verserà nell'ipotesi di nullità sancita dal citato articolo 79, il cui secondo comma specifica, peraltro, che il conduttore «con azione proponibile fino a sei mesi dopo la riconsegna dell'immobile locato, può ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge». Diritto a non erogare somme più alte rispetto al canone dovuto che, si badi – pur sorgendo al momento della conclusione del contratto e persistendo durante tutto il corso del rapporto – potrà esser fatto valere soltanto dopo la riconsegna dell'immobile, entro il termine di decadenza di sei mesi, ma non prima. Queste, le motivazioni del rigetto del ricorso.

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